Ecco la seconda parte della mia “analisi” sul blog http://www.giovanitentazioni.it/. Come preannunciato, vorrei sottolineare come i nostri “ipotetici interlocutori di cui non conosciamo nulla se non quello che decidono di condividere con noi” (parole di Ilaria, le uniche, o quasi, che condivido) possono aver raccontato solo balle, sicuri del fatto che tanto non possiamo controllare.
Ci sono moltissimi studi sulle identità virtuali e sugli effetti che queste identità hanno sulla comunicazione: i primi sottolineavano come ci fosse una equalizzazione sociale e la formattazione della nostra identità, quindi come noi fossimo in grado, grazie allo schermo che ci nascondeva, di cancellare e riscrivere la nostra identità. Il problema è che questi studi non sono stati fatti nel mio ambiente di studio (il blog), ma sulle e-mail aziendali e sui MUD (i giochi di ruolo on-line) e sono stati aspramente criticati, perché non esenti da portati utopici (non mi dilungo a spiegarvi il perché). Io, però, credo che all’interno di un blog sia possibile cancellare e riscrivere la nostra identità, anche se, come nei MUD, nel momento in cui ricostruiamo nuove identità, partiamo sempre da zero e perdiamo tutta la credibilità e il prestigio legati al precedente nick, ma con ogni nick possiamo costruire una storia, vera o falsa che sia nella realtà e attrarre la massa verso quella storia (io l’ho fatto nel blog http://www.giovanitentazioni.it/ e nessuno lo sa che ho svariate identità, le quali fanno riferimento sempre e solo a me e al mio cervello pensante).
Gli studi seguenti, quelli del “postmodernismo radicale”, affermavano che il contesto culturale della rete è proprio quello di giocare con la propria identità, in quanto essa non è più legata ad un referente esterno (il corpo, che in rete viene cancellato): niente risulta così controllabile e quindi niente è falsificabile, tutti i segni che compongono la mia identità reale vengono manipolati e non esiste più il concetto di vero/falso e, come diceva Ilaria, non resta che prendere il proprio interlocutore come lui si propone, accettando questa sua proposta (vero anche che posso non accettarla e, se all’interno del gruppo virtuale mi viene riconosciuta una qualche forma di autorità, posso rifiutarla e riscriverla, assegnandone una in maniera coatta).
Qualcuno, infine, può criticarmi, aggrappandosi agli approcci sociolinguistici, i quali evidenziano che il nostro modo di scrivere sia carico di indizi riguardo alla nostra identità sessuale: tratti della nostra scrittura inconsci, su cui non si esercita riflessività e che sfuggono al controllo, diventando segni affidabili, ma io non vado a sindacare sull’identità di gender (se una donna si spaccia per uomo o se un uomo si spaccia per donna: cose che comunque avvengono), volevo solo sottolineare che si possono inventare storie che nessuno verrà mai a sapere se sono vere o no, storie credibili a cui la gente abboccherà facilmente, soprattutto se toccano le corde giuste (quelle della fatidica curiosità morbosa su cui Catone è stato criticato).
P.s.: se non ci avete capito niente, non fatevene un problema: a me è servito un anno accademico intero per arrivarne a capo.
I commenti sono già diventati 3: ma quanti boccaloni e pseudopsicologi ci sono in giro? E quanto sono stronza io?
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